giovedì 20 marzo 2008

Messa Crismale 2008: Omelia di Mons. Costanzo

Appena conclusasi la Messa crismale nel duomo di Siracusa, con gioia e affetto pubblichiamo il testo della stupenda e sapientissima omelia poc’anzi pronunciata dal nostro amato arcivescovo metropolita mons. Giuseppe Costanzo – forse la più bella di sempre –, tutta incentrata sull’amore:

Venerati confratelli nel sacerdozio ministeriale, il ricordo commosso e grato va quest’oggi a quella notte in cui il nostro Maestro e Signore Gesù Cristo, sedendo a mensa con i suoi, istituì il sacrificio eucaristico e insieme il sacerdozio ministeriale, costituendoci dispensatori dei divini misteri e pastori del suo popolo santo. Questo, dunque, è il nostro giorno: giorno di rinnovata consapevolezza e di viva riconoscenza.
Cari religiosi e religiose, è anche il vostro giorno, quello in cui l’immenso dono ricevuto colma di stupore il vostro cuore e vi spinge a contraccambiare il dono con la radicalità della vostra consacrazione.
Fedeli laici dilettissimi, anche voi il Signore ha voluto associare al suo mistero salvifico, facendovi sacerdoti, re e profeti. Anche con voi vuole fare storia di salvezza e riconsacrare il mondo a Dio. Questo, dunque, è un giorno santo, giorno grande, in cui tutti vogliamo sentirci “perfetti nell’unità” (“consummati in unum”, Gv 17, 23), ricordando appunto che “poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10, 17).
In questo giorno solenne, l’ultimo che ho la grazia e la responsabilità di celebrare con voi, desidero confidarVi ciò che più mi urge nel cuore.

AI SACERDOTI
Con voi, cari confratelli sacerdoti, vorrei riflettere un tema che, dopo tanti anni di ministero, mi sembra di capitale importanza. E’ il tema dell’amore pastorale, che potremmo anche chiamare “paternità pastorale”. E’ un dono che cresce e matura nel tempo – con l’esperienza, con la preghiera, con la sofferenza, con la grazia di Dio – ma che esige di essere dilatato. E’ come il talento: non puoi seppellirlo, ma devi trafficarlo e moltiplicarlo. Attingiamo alla parola e all’esempio di Cristo. L’amore pastorale è il mandato di Cristo per noi, il suo testamento, la sua eredità. E’ la testimonianza più vera del nostro amore a Cristo. L’amore pastorale raccoglie in pieno il movimento di carità partito dal Cuore di Cristo la sera dell’ultima Cena: lo continua, lo realizza nel cuore della storia, lo diffonde, lo perpetua. L’amore pastorale riproduce l’esempio dell’amore totale di Cristo, che “ha amato la sua Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa” (Ef 5, 25 sg.). L’amore pastorale raggiunge il vertice della carità quando noi amiamo come Cristo “usque in finem” (Gv 13, 1), quando diamo la vita per i fratelli (cfr. Gv 15, 13). L’amore pastorale è la nostra vocazione e il nostro impegno quotidiano. Affrontare questo tema vuol dire riconsiderare e, se necessario, rianimare il nostro amore per le anime. Tema immenso. Tema urgente. Quello pastorale è un amore dovuto: dovuto a tutti indistintamente, anche a chi non vi ha altro titolo che quello di dimorare in un dato territorio. [a braccio: Abita nella tua parrocchia? Gli devi amore!] Solo il mercenario, “che non è pastore e al quale le pecore non appartengono (…) abbandona le pecore e fugge” (Gv 10, 12); il pastore, invece, le cerca, le pasce, le guida, le difende dai lupi, “offre la vita per le pecore” (Gv 10, 11); ed esse lo riconoscono, ne ascoltano la voce, si affezionano a lui. L’amore pastorale implica zelo e dedizione fino al sacrificio, ed è il segno del nostro amore al Buon Pastore, che ci ha amati, ci ha scelti, ci ha associati a Sé; ed è riconoscenza per la fiducia che ci ha accordato affidandoci il suo gregge. In quella fatidica sera dell’ultima Cena Gesù, mentre inondava gli apostoli del suo amore, chiese loro di partecipare al grande atto della sua carità adempiendo il precetto nuovo di amarsi fra di loro. Ma non si fermò qui. Non si arrestò agli Undici discepoli. Li trasformò in apostoli, in messaggeri, incaricati di trasmettere agli altri l’amore di Cristo. L’amore divino si effonde, come in cascate successive, dal Padre nel Figlio, dal Figlio nei dodici, e da questi in tutti i credenti: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore (…) Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15, 9.12). Dall’amore di Cristo nasceva l’amore collegiale degli apostoli fra loro, e dall’amore collegiale doveva scaturire l’amore pastorale: “Mi ami? … Pasci” (Gv 21, 15). La condizione è netta: per essere pastori bisogna amare. Senz’amore si può essere solo mercenari. Ma non è tutto. A questo mistero d’amore, per cui Cristo sarebbe stato vivo ed operante nei suoi, Egli aggiunse un esempio e un precetto. L’esempio è la lavanda dei piedi, con cui Gesù ci insegna che dobbiamo amare in umiltà. Il precetto è il comandamento nuovo, con cui Gesù ci dice che dobbiamo amare fino al dono della vita, come Egli ha fatto. A questo, come pastori, siamo votati. E’ questo che ci qualifica, e a questo tutti vorremmo restare fedeli: essere pastori buoni, essere veri padri. La paternità spirituale, più profonda e più estesa di quella fisica, è il servizio più nobile e il più crocifiggente. Chiede sacrificio, amore, spirito di servizio e senso di responsabilità. Chiede ascesi quotidiana. Se vogliamo coltivare e valorizzare i nostri fratelli laici dobbiamo essere pastori che “non spadroneggiano nel gregge” (1 Pt 5), né intendono “far da padroni sulla fede” dei credenti, ma dobbiamo impegnarci ad essere “collaboratori della loro gioia” (2 Cor 1, 24). Dobbiamo ascoltarli, incoraggiarli, dare fiducia, anche rischiando. Questo è il nostro grande compito di pastori. Ci è chiesta tanta pazienza e tanta fortezza: pazienza per non lasciarci amareggiare dagli insuccessi, né spaventare dalle difficoltà; fortezza per andare avanti, puntando sempre su grandi orizzonti e avanzando a piccoli passi. Fortezza per agire con quella dolcezza, che sa evitare sia la durezza scontrosa sia la debolezza arrendevole e rassegnata. Lo esige l’esercizio di una vera paternità. La paternità è fermezza ma senza durezza, è bontà ma senza debolezza. E’ autorità, ma sempre ragionevole, non scortese, non capricciosa, non dispotica. E’ sollecitudine trepida e vigilante per il bene della nostra gente. E’ capacità di ascoltarne i pareri, di coglierne i bisogni, di compatirne le debolezze, di perdonarne le offese. E’ gusto di spendersi per dare certezze, per suscitare speranza, per generare a vita nuova. E’ disponibilità a “consumarsi per le anime” – direbbe Paolo (cfr. 2 Cor 12, 15) – poiché la carità pastorale “urget nos”, “ci spinge”, ci incalza, non ci dà tregua. La paternità non seleziona, non esclude, non discrimina. Ama tutti e ciascuno. Ama ognuno secondo il suo bisogno, altrimenti ferisce, anziché far crescere. Ama ciascuno come se fosse l’unico, come fanno i genitori coi figli. Ama senza attendersi ritorni. Soffre se non c’è corrispondenza, ma non cessa, per questo, di amare. Come fa con noi il Signore, che non è mai stanco di amarci.

AI LAICI
E ora permettetemi di rivolgermi a voi, carissimi fratelli e sorelle, che Gesù ha voluto partecipi del suo sacerdozio profetico e regale. A voi, in questo particolare momento della storia, è chiesto di essere presenza significativa ed incisiva. La sfida antropologica, infatti, si gioca e sarà sempre più giocata tutta sul terreno riservato alle vostre competenze: cultura, scienza, politica, economia, comunicazione, arte. Un laico che crede e non si vergogna del Vangelo inevitabilmente contagerà altri, e questi altri ancora, a catena. E’ cosi che si diffonde il Vangelo. Nella condizione di diffuso secolarismo della nostra epoca, non vi sarà profezia se non tornerà a farsi profetica la vita del cristiano comune, di colui, cioè, che vive “nelle comuni condizioni del secolo”, di colui che mostra di fare tutto per la gloria di Dio, “sia mangiando, sia bevendo, sia facendo qualsiasi altra cosa” (cfr. 1 Cor 10, 31). In questo compito, voi fedeli laici avete “un posto di primo piano” (L. G. 36), soprattutto là dove “la Chiesa non può diventare sale della terra se non per mezzo vostro” (cfr. L. G. 33). Della vostra testimonianza non si può fare a meno. Perché la missione non è propaganda e la testimonianza non è fare colpo, ma fare mistero. E’ vivere una vita vera, piena, bella, talmente bella che essa non si potrebbe spiegare se Cristo non fosse morto e non fosse davvero risorto. Cristo morto e risorto, Cristo Unico Signore, Cristo il solo Salvatore: è questo il messaggio da recapitare con urgenza all’uomo d’oggi, giacché se Cristo non fosse risorto, il cristianesimo non sarebbe mai nato. I primi cristiani hanno annunciato questo messaggio in tutti i modi: lo hanno gridato, lo hanno cantato, lo hanno raccontato, ma soprattutto lo hanno testimoniato fino al sangue. Anche oggi vi è chiesto, carissimi fratelli e sorelle, di gridare il Vangelo con la vita, di comunicarlo, per “irradiazione” o per “contagio”, direbbe Paolo VI (cfr. E. N. 21). Si evangelizza infatti non solo con la proclamazione diretta del Vangelo, ma anche con una “condotta irreprensibile tra i pagani, perché (…) al vedere le vostre opere buone giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio” (1 Pt 2, 12). E “anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola”, possono “senza bisogno di parole, essere conquistati considerando la vostra condotta” (ivi 3,1-2). Questa condotta fa scattare le domande registrate nella lettera a Diogneto: “Che amore è quello che i cristiani si portano a vicenda? (…) Che Dio è quello in cui costoro confidano e che genere di culto gli tributano per disdegnare così il mondo e disprezzare la morte?”. E allora bisogna essere “pronti sempre a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15). Ma questo succede, di fatto, oggi, nelle nostre parrocchie o l’annuncio evangelico che vi risuona ha perso la freschezza di una notizia lieta e sorprendente, è diventato stanco e spento, e sa di scontato e di imparaticcio? Cosa che accade quando si riduce il cristianesimo da evento a dottrina a morale [a braccio: che poi diventa moralismo]. Il cristianesimo è storia e va innanzitutto raccontato, è vita e va anzitutto vissuto. Non dimentichiamo le parole di Sartre: “Bisogna aver scoperto l’amore prima della morale, altrimenti è lo strazio”. Vi auguro, fratelli e figli dilettissimi, di testimoniare nel mondo il fascino esercitato su di voi da questa storia infinita dell’infinito amore: l’amore di Dio fatto carne in Gesù, che ci ha amato fino alla morte e alla morte in croce.

A TUTTI
Mi sia concesso, ora, di concludere con un’esortazione che vale per tutti: sacerdoti, religiose e laici. E’ l’invito alla santità, che è chiamata universale ed è il segno di una vita riuscita. E’ la risposta più seria all’amore di Dio. E’ l’adesione piena ai suoi disegni. E’ il trionfo della sua grazia. Santità è luce che si riflette nel mondo grazie a innumerevoli lucerne vive, accese dalla grazia e disseminate dovunque. Che prendono sì luce dall’alto, ma sono saldamente piantate nella terra. Esse fugano l’oscurità del mondo, trasformandolo in un tripudio di luce: “Voi siete la luce del mondo (…) Risplenda la vostra luce davanti agli uomini” (Mt 5, 14.16). Farsi santi vuol dire “risplendere come astri nel mondo, tenendo alta la Parola di vita” (cfr. Fil 2, 15 sg.). Vuol dire “diventare conformi a Cristo” (cfr. Rm 8, 29). E’ Lui la Sorgente e il Modello di ogni santità. Vuol dire rendersi docili all’azione interiore dello Spirito, che è Santo e Santificante. Vuol dire contemplare Maria, che è specchio della santità (“speculum iustitiae”). Vuol dire imitare i Santi, che sono i riflessi viventi della divina perfezione. Vuol dire lasciarsi raggiungere e trasformare dai canali della santità, che sono i sacramenti. E’ questa la vera ricchezza della Chiesa: la santità. Diceva Gounod: “Una goccia di santità vale più di un oceano di genio”. Quanto più cresceremo nella capacità di renderci disponibili a Dio, cioè di tacere, di adorare, di pregare, di meditare, di arrenderci alle sue ispirazioni, di fare la sua volontà, di portare la sua croce, tanto più la sua pienezza ci invaderà, ci trasformerà, ci santificherà. E’ il sogno che custodisco nel cuore e che affido ai Santi di questa nostra Chiesa e alle lacrime della Madonna, Vergine fedele e Regina di tutti i Santi.

Giuseppe Costanzo

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