domenica 23 marzo 2008

CRISTO È RISORTO! È VERAMENTE RISORTO! ALLELUJA!

(Francesco Scialfa, Cristo di luce, dipinto su legno di faggio, cripta del santuario della Madonna delle Lacrime, Siracusa. I fasci di luce che si sprigionano dal capo, dalle mani e dai piedi di Gesù rappresentano la resurrezione dopo la crocifissione. La sagoma della tavola, ancor più enfatizzata dall'ombra sulla parete retrostante, rappresenta un calice)



"Pasqua dilettevole, Pasqua del Signore, Pasqua, Pasqua venerabilissima è sorta per noi. Pasqua, gioiosamente abbracciamoci uno con l'altro.

Pasqua, consolazione del dolore perché oggi Cristo, risplendendo dal sepolcro come da camera nuziale, ha colmato di gioia le donne, dicendo: Annunciate agli apostoli.


E' il giorno della resurrezione: risplendiamo nell'adunanza festiva e abbracciamoci gli uni con gli altri.

Diciamo, fratelli, anche a quelli che ci odiano: Condoniamo tutto nel giorno della risurrezione e proclamiamo a gran voce: Cristo è risorto dai morti, ha calpestato la morte con la morte e ha donato la vita a quanti giacevano nei sepolcri".



(dalla liturgia bizantina)

AVVISO: DOMANI ESPOSIZIONE DEL SIMULACRO DI S. LUCIA

Ricordiamo a tutti i siracusani e a tutti i devoti di Santa Lucia che domani, lunedì dell'Angelo, come ogni anno, le Sacre Reliquie e il simulacro-reliquiario argenteo della nostra Patrona saranno solennemente esposti nella Sua Cappella del Duomo di Siracusa, dalle ore 7.30 alle 20.00. Mons. Vincenzo Calvo, tesoriere della Deputazione, alle ore 10.30 celebrerà la Santa Messa all'altare della Santa.

Tale antica tradizione è una bella manifestazione dell'amore plurisecolare che i siracusani nutrono verso la loro più amata concittadina: si sa che le festività vanno trascorse in compagnia dei propri cari, così i siracusani vogliono festeggiare la Santa Pasqua insieme a Santa Lucia, e perciò vogliono accostarsi alle Sue Reliquie e contemplarNe la Sua più bella effige.
La santità di Lucia è uno dei più grandi doni pasquali che Cristo Risorto ha fatto alla nostra Chiesa, e quindi i nostri antenati hanno istituito questa esposizione pasquale per ringraziare Dio del dono di Lucia!

Da quest'anno, inoltre, la tradizione è stata ripristinata secondo l'antica usanza: cioè l'esposizione si protrae per tutta la giornata e non solo al mattino, come è avvenuto negli anni più recenti.

Settimana Santa 2008: settima meditazione

Pasqua di Resurrezione

Carissimi, auguri di una felice e gioiosa Santa Pasqua!
Quest'anno, per tutta la Settimana Santa, abbiamo meditato sugli scritti di Chiara Lubich, fondatrice dell'Opera di Maria (Movimento dei Focolari), che lo scorso venerdì 14 marzo è ritornata nel Seno del Padre.
La meditazione che pubblichiamo oggi, autentica professione di fede nella certezza della resurrezione, è particolarmente emozionante da leggere, ora che l'autrice è partita per il Cielo:
Conferma della fede
La risurrezione di Gesù è ciò che maggiormente caratterizza il cristianesimo, ciò che distingue il suo Fondatore, Gesù. Il fatto che è risorto. Risorto da morte! Ma non nella maniera di altri risorti, come Lazzaro ad esempio, che poi, a suo tempo, è morto. Gesù è risorto per non morire mai più, per continuare a vivere, anche come uomo, in Paradiso, nel cuore della Trinità. E l'hanno visto in 500 persone! E non era certo un fantasma. Era lui, proprio lui: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato" (Gv 20,27), ha detto a Tommaso. Ed ha mangiato con i suoi ed ha parlato ai suoi ed è rimasto con loro ben 40 giorni... Aveva rinunciato alla sua infinita grandezza per amore nostro e s'era fatto piccolo, uomo fra gli uomini, come uno di noi, così piccoli che da un aereo non ci possono neppure vedere. Ma, poiché è risorto, ha rotto, ha superato ogni legge della natura, del cosmo intero, e s'è mostrato, con questo, più grande di tutto ciò che è, di tutto ciò che ha creato, di tutto ciò che si può pensare. Sicché anche noi, al solo intuire questa verità, non possiamo non vederlo Dio, non possiamo non fare come Tommaso e, inginocchiati di fronte a Lui, adoranti, confessare e dirgli col cuore in mano: "Mio Signore e mio Dio". Anche se non la saprò mai descrivere bene, è questo l'effetto che ha fatto in me la luce del Risorto.
Certamente, lo sapevo; sicuramente lo credevo, e come! Ma qui l'ho come visto. Qui la mia fede è diventata chiarezza, certezza, ragionevole, vorrei dire. E ho visto con altri occhi quello che ha fatto in quei nuovi favolosi giorni terreni. Dopo la discesa dal Cielo di un angelo che ha ribaltato la pietra del suo sepolcro e lo ha annunciato, ecco il Risorto apparire per primo alla Maddalena, già peccatrice, perché egli aveva preso carne per i peccatori. Eccolo sulla via di Emmaus, grande e immenso com'era, farsi il primo esegeta a spiegare ai due discepoli la Scrittura.
Eccolo come fondatore della sua Chiesa, imporre le mani ai suoi discepoli, per dar loro lo Spirito Santo; eccolo dire straordinarie parole a Pietro, che ha posto a capo della sua Chiesa. Eccolo mandare i discepoli nel mondo ad annunziare il Vangelo, il nuovo Regno da lui fondato, in nome della Santissima Trinità da cui era disceso quaggiù e che nell'ascensione seguente avrebbe raggiunto in anima e corpo. Tutte cose conosciute da me, ma ora nuove perché vere in assoluto per la fede e per la ragione. E perché Risorto, ecco anche le sue parole detteci in precedenza, prima della sua morte, acquistare una luminosità unica, esprimere verità incontrastabili. E prime fra tutte quelle in cui annuncia anche la nostra risurrezione. Risorgerò, risorgeremo. Lo sapevo e lo credevo perché sono cristiana. Ma ora ne sono doppiamente certa. Potrò dire allora ai miei molti, ai nostri molti amici partiti per l'Aldilà e, forse, pensati da noi inconsciamente perduti, non tanto: addio, ma ARRIVEDERCI, ARRIVEDERCI per non lasciarci mai più. Perché fin qui arriva l'amore di Dio per noi.
Non so se ho espresso, almeno un po', la grazia, la luce che ho ricevuto: una conferma della fede. Che il Signore faccia in modo che l'abbia potuta comunicare a tutti voi che mi avete ascoltato, come conferma della vostra fede.

Chiara Lubich
(da un pensiero del 14 novembre 2002)

sabato 22 marzo 2008

La discesa agli inferi del Signore


Sabato Santo


Questo è il giorno in cui Gesù "discese agli inferi", come proclamiamo nel "Credo" della formula detta "Simbolo apostolico". Ecco il testo, conosciutissimo, il nome del cui autore è però ignoto, di "un'antica omelia sul sabato santo", inserito come lettura patristica nell'ufficio mattutino di oggi, bellissimo esempio di quella teologia poetica tipica dei Padri orientali:


Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi.
Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione.
Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: « Sia con tutti il mio Signore ». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: « E con il tuo spirito ». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: "Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà.
Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura.
Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti. Per te, che sei uscito dal giardino del paradiso terrestre, sono stato tradito in un giardino e dato in mano ai Giudei, e in un giardino sono stato messo in croce. Guarda sulla mia faccia gli sputi che io ricevetti per te, per poterti restituire a quel primo soffio vitale. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la tua bellezza perduta.
Guarda sul mio dorso la flagellazione subita per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati. Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all'albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell'inferno. La mia lancia trattenne la lancia che si era rivolta contro di te.
Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio.
Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l'eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli ».

Settimana Santa 2008: sesta meditazione


Il sabato - giorno mariano - immediatamente successivo alla crocifissione e morte del nostro Signore, è - per il rito romano - l'unica giornata aliturgica (senza Messa del giorno) dell'anno. Ieri abbiamo digiunato dal cibo materiale, oggi digiuniamo dalla liturgia eucaristica e dal cibo soprannaturale che è il Corpo di Gesù. Oggi il Corpo di Gesù non si vede: una pietra che sigilla il suo sepolcro lo nasconde ai nostri occhi. E così non vediamo - né mangiamo - nemmeno il suo Corpo sacramentale. Attendiamo la resurrezione, e intanto andiamo da Maria, per darLe un po' di conforto ma soprattutto per riceverne da Lei. Mediteremo sulle parole che Chiara Lubich molti anni fa dedicò a Maria contemplando la Pietà di Michelangelo: parole valide anche per noi, che ieri siamo rimasti ancora una volta incantati dalla sublime bellezza dei simulacri dell'Addolorata portati in processione in tutta la Sicilia.


"Stai, Madonna bella di Michelangelo, in quella cappella di San Pietro, ed ogni volta che ti guardo sembri più bella. Passano giorni, anni, secoli e uomini di tutto il mondo sono corsi a vederti e tu hai lasciato nell'animo loro qualcosa di sublime, di dolcissimo. Dai, a chi ti ammira, di provare un senso come di beatitudine: sembra che tu tocchi il fondo di ogni anima umana, il fondo dell'anima umana, e questo raggio celeste, che da te parte, bacia il centro immortale dell'uomo, di ogni uomo: di ieri, di oggi, di sempre. Quando le tragedie del vivere umano mi incupiscono, quando la televisione con alcuni prograami mi umanizza ma non mi eleva, quando il giornale con le sue cronache sempre troppo eguali mi mette malinconia, quando il dolore mi morde nell'anima e nel corpo, ti guardo e mi sollevo. C'è in te qualcosa che non muore. Ed è questo qualcosa che mi fa pensare. Si dice che è artista colui che sa esprimere quel che ha dentro. Ma si dice pure che è filosofo colui che risponde ai "perché". Ma non è così: la filosofia cerca il vero, è la scienza della verità. Allo stesso modo io penso che non si possa definire artista colui che esprime quel che ha dentro. Ci sono tante cose dentro, nell'uomo: odi, rancori, gelosie, nostalgie, amori, passioni di ogni specie, e ogni espressione di tutto ciò non può essere arte, perché allora il pazzo dovrebbe essere il miglior artista: meglio di tutti infatti sa esteriorizzare quel che sente. Forse l'arte è un'altra cosa: e me lo dici tu, Madonna bella di Michelangelo: l'arte è saper trasformare in un dipinto, in una scultura, in una architettura, in una musica... qualcosa di quel che nell'anima non muore. Un'opera d'arte è resa così eterna da questo "qualcosa" per cui, pur passando gli anni, le mode, i metodi, pur progrendento la tecnica, pur moltiplicandosi le scoperte, quell'opera resta, perché ha un'impronta immortale, divina. Oggi, mentre ti guardavo, Madonna bella, pensavo: quanto è sublime e divino l'effetto di un'opera d'arte. Testimonia l'immortalità dell'anima, perché se l'oggetto plasmato non muore, ma è arte proprio perché è immortale (nel senso che non passa finché si mantiene), colui che ti ha fatto non può morire. E mi parve che l'arte assurgesse a un'altezza mai pensata e il bello fosse, come il vero e come il buono, materia prima del regno celeste che ci attende, e che gli artisti veri avessero, senza saperlo, una missione apostolica. Coi loro capolavori d'arte ci donano angeli invisibili e silenziosi che ci indicano il Cielo... Ed ho capito che solo il Bello è bello è l'Arte è arte, nel senso che o il bello è un bello universale ed eterno, o non è. Ma se un'opera d'arte dimostra l'immortalità dell'anima, non vuol dire che l'arte sia religione, nel senso che l'artista sia necessariamente religioso. Certo la persona veramente religiosa - per il solo fatto che ha contatto con Dio, creatore dell'anima fatta ad immagine sua - trova più facilmente spalancata la via all'arte (e ciò è dimostrato dal numero immenso di capolavori d'arte a carattere religioso). Basta comunque che l'artista trasfonda nell'opera l'anima sua, e l'anima dell'artista, anche se incredulo o ateo, è sempre immortale. E' immortale, è spirituale: è una. Ed è qui, credo, la prima causa dell'opera d'arte. Se contenuto della filosofia è il vero, dell'arte è il bello. E il bello è armonia: e armonia vuol dire "altissima unità". Ora, chi saprà comporre in armonia i colori e le parti di una pittura, se non l'anima dell'artista che è una ad immagine dell'unità di Dio è l'ha creata? E' l'anima umana, riflesso del Cielo, che l'artista trasfonde nell'opera, e in questa "creazione", frutto del suo genio, l'artista trova una seconda immortalità: la prima in sé, come ogni altro uomo nato quaggiù, la seconda nelle sue opere, attraverso le quali si dona nel corso dei tempi all'umanità. L'artista è forse il più vicino al santo. Perché se il santo è tale portento che sa donare Dio al mondo, l'artista dona, in certo modo, la creatura più bella della terra: l'anima umana. Questo ho meditato di fronte a te, Madonnina bella di Michelangelo. E giacché a te ho parlato, a te chiedo un dono: guarda gli artisti, che ti contemplano ogni giorno, con occhi di maternità, e sazia questa sete di bellezza che il mondo sente: manda grandi artisti, ma plasma con essi grandi anime, che col loro splendore avviino gli uomini verso il più bello tra i figli degli uomini: il tuo dolce Gesù".


Chiara Lubich

(Scritti spirituali, 1° vol., Città nuova, Roma 1978, pp. 211-213)

venerdì 21 marzo 2008

Settimana Santa 2008: quinta meditazione



Venerdì santo

La morte di Gesù in croce è l'altissima, divina, eroica lezione di Gesù su cosa sia l'amore. Aveva dato tutto: una vita accanto a Maria nei disagi e nell'obbedienza.
Tre anni di predicazione rivelando la Verità, testimoniando il Padre, promettendo lo Spirito Santo e facendo ogni sorte di miracoli d'amore. Tre ore di croce, dalla quale dà il perdono ai carnefici, apre il Paradiso al ladrone, dona a noi la Madre e, finalmente, il suo Corpo e il suo Sangue, dopo averceli dati misticamente nell'Eucaristia. Gli rimaneva la divinità. La sua unione col Padre, la dolcissima e ineffabile unione con Lui che l'aveva fatto tanto potente in terra, quale figlio di Dio, e tanto regale in croce, questo sentimento della presenza di Dio doveva scendere nel fondo della sua anima, non farsi più sentire, disunirlo in qualche modo da Colui che Egli aveva detto di essere uno con Lui: «Io e il Padre siamo uno» (Gv. 10,30). In Lui l'amore era annientato; la luce, spenta la sapienza, taceva. Si faceva dunque nulla per far noi partecipi al Tutto; verme (Salmo, 22,7) della terra, per far noi figli di Dio. Eravamo staccati dal Padre. Era necessario che il Figlio, nel quale noi tutti ci ritrovavamo, provasse il distacco dal Padre. Doveva sperimentare l'abbandono di Dio, perché noi non fossimo mai più abbandonati. Egli aveva insegnato che nessuno ha maggior carità di colui che pone la vita per gli amici suoi. Egli, la Vita, poneva tutto di sé. Era il punto culmine, la più bella espressione dell'amore.Il suo volto è nascosto in tutti gli aspetti dolorosi della vita: non sono che Lui. Sì, perché Gesù che grida l'abbandono è la figura del muto: non sa più parlare. È la figura del cieco: non vede, del sordo: non sente. È lo stanco che si lamenta. Rasenta la disperazione. È l'affamato... d'unione con Dio. È figura dell'illuso, del tradito, appare fallito. È pauroso, timido, disorientato. Gesù abbandonato è la tenebra, la malinconia, il contrasto, la figura di tutto ciò che è strano, indefinibile, che sa di mostruoso, perché un Dio che chiede aiuto!... È il solo, il derelitto... Appare inutile, scartato, scioccato... Lo si può scorgere perciò in ogni fratello sofferente.Avvicinando coloro che a Lui somigliano, possiamo parlare di Gesù abbandonato. A quanti si vedono simili a lui e accettano di condividere con Lui la sorte, ecco che egli risulta: per il muto la parola, a chi non sa, la risposta, al cieco la luce, al sordo la voce, allo stanco il riposo, al disperato la speranza, al separato l'unità, per l'inquieto, la pace. Con Lui l'uomo si trasforma e il non senso del dolore acquista senso. Egli aveva gridato il perché al quale nessuno aveva risposto, perché noi avessimo la risposta ad ogni perché.Il problema della vita umana è il dolore. Qualsiasi forma abbia, per terribile che sia, sappiamo che Gesù l'ha preso su di sé e muta, per un'alchimia divina, il dolore in amore. Per esperienza posso dire che appena si gode di un qualsiasi dolore, per essere come Lui e poi si continua ad amare facendo la volontà di Dio, il dolore, se spirituale, sparisce; se fisico, diviene giogo leggero. Il nostro amore puro al contatto col dolore, lo tramuta in amore; in certo modo lo divinizza, quasi prosegue in noi - se lo possiamo dire - la divinizzazione che Gesù fece del dolore.
E, dopo ogni incontro con Gesù abbandonato, amato, trovo Dio in modo nuovo, più faccia a faccia, più aperto, in un'unità più piena. Tornano la luce e la gioia e, con la gioia, la pace che è frutto dello spirito.Quella luce, quella gioia, quella pace fiorite dal dolore amato colpiscono e sciolgono anche le persone più difficili. Inchiodati in croce si è madri e padri di anime. Effetto è la massima fecondità. Come scrive Olivier Clément: «L'abisso, aperto per un istante da quel grido, si riempie del grande soffio della resurrezione». Si annulla ogni disunità, traumi e spacchi sono colmati, risplende la fraternità universale, fioriscono miracoli di risurrezione, nasce una nuova primavera nella Chiesa e nell'umanità.

Chiara Lubich

giovedì 20 marzo 2008

Messa Crismale 2008: Omelia di Mons. Costanzo

Appena conclusasi la Messa crismale nel duomo di Siracusa, con gioia e affetto pubblichiamo il testo della stupenda e sapientissima omelia poc’anzi pronunciata dal nostro amato arcivescovo metropolita mons. Giuseppe Costanzo – forse la più bella di sempre –, tutta incentrata sull’amore:

Venerati confratelli nel sacerdozio ministeriale, il ricordo commosso e grato va quest’oggi a quella notte in cui il nostro Maestro e Signore Gesù Cristo, sedendo a mensa con i suoi, istituì il sacrificio eucaristico e insieme il sacerdozio ministeriale, costituendoci dispensatori dei divini misteri e pastori del suo popolo santo. Questo, dunque, è il nostro giorno: giorno di rinnovata consapevolezza e di viva riconoscenza.
Cari religiosi e religiose, è anche il vostro giorno, quello in cui l’immenso dono ricevuto colma di stupore il vostro cuore e vi spinge a contraccambiare il dono con la radicalità della vostra consacrazione.
Fedeli laici dilettissimi, anche voi il Signore ha voluto associare al suo mistero salvifico, facendovi sacerdoti, re e profeti. Anche con voi vuole fare storia di salvezza e riconsacrare il mondo a Dio. Questo, dunque, è un giorno santo, giorno grande, in cui tutti vogliamo sentirci “perfetti nell’unità” (“consummati in unum”, Gv 17, 23), ricordando appunto che “poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10, 17).
In questo giorno solenne, l’ultimo che ho la grazia e la responsabilità di celebrare con voi, desidero confidarVi ciò che più mi urge nel cuore.

AI SACERDOTI
Con voi, cari confratelli sacerdoti, vorrei riflettere un tema che, dopo tanti anni di ministero, mi sembra di capitale importanza. E’ il tema dell’amore pastorale, che potremmo anche chiamare “paternità pastorale”. E’ un dono che cresce e matura nel tempo – con l’esperienza, con la preghiera, con la sofferenza, con la grazia di Dio – ma che esige di essere dilatato. E’ come il talento: non puoi seppellirlo, ma devi trafficarlo e moltiplicarlo. Attingiamo alla parola e all’esempio di Cristo. L’amore pastorale è il mandato di Cristo per noi, il suo testamento, la sua eredità. E’ la testimonianza più vera del nostro amore a Cristo. L’amore pastorale raccoglie in pieno il movimento di carità partito dal Cuore di Cristo la sera dell’ultima Cena: lo continua, lo realizza nel cuore della storia, lo diffonde, lo perpetua. L’amore pastorale riproduce l’esempio dell’amore totale di Cristo, che “ha amato la sua Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa” (Ef 5, 25 sg.). L’amore pastorale raggiunge il vertice della carità quando noi amiamo come Cristo “usque in finem” (Gv 13, 1), quando diamo la vita per i fratelli (cfr. Gv 15, 13). L’amore pastorale è la nostra vocazione e il nostro impegno quotidiano. Affrontare questo tema vuol dire riconsiderare e, se necessario, rianimare il nostro amore per le anime. Tema immenso. Tema urgente. Quello pastorale è un amore dovuto: dovuto a tutti indistintamente, anche a chi non vi ha altro titolo che quello di dimorare in un dato territorio. [a braccio: Abita nella tua parrocchia? Gli devi amore!] Solo il mercenario, “che non è pastore e al quale le pecore non appartengono (…) abbandona le pecore e fugge” (Gv 10, 12); il pastore, invece, le cerca, le pasce, le guida, le difende dai lupi, “offre la vita per le pecore” (Gv 10, 11); ed esse lo riconoscono, ne ascoltano la voce, si affezionano a lui. L’amore pastorale implica zelo e dedizione fino al sacrificio, ed è il segno del nostro amore al Buon Pastore, che ci ha amati, ci ha scelti, ci ha associati a Sé; ed è riconoscenza per la fiducia che ci ha accordato affidandoci il suo gregge. In quella fatidica sera dell’ultima Cena Gesù, mentre inondava gli apostoli del suo amore, chiese loro di partecipare al grande atto della sua carità adempiendo il precetto nuovo di amarsi fra di loro. Ma non si fermò qui. Non si arrestò agli Undici discepoli. Li trasformò in apostoli, in messaggeri, incaricati di trasmettere agli altri l’amore di Cristo. L’amore divino si effonde, come in cascate successive, dal Padre nel Figlio, dal Figlio nei dodici, e da questi in tutti i credenti: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore (…) Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15, 9.12). Dall’amore di Cristo nasceva l’amore collegiale degli apostoli fra loro, e dall’amore collegiale doveva scaturire l’amore pastorale: “Mi ami? … Pasci” (Gv 21, 15). La condizione è netta: per essere pastori bisogna amare. Senz’amore si può essere solo mercenari. Ma non è tutto. A questo mistero d’amore, per cui Cristo sarebbe stato vivo ed operante nei suoi, Egli aggiunse un esempio e un precetto. L’esempio è la lavanda dei piedi, con cui Gesù ci insegna che dobbiamo amare in umiltà. Il precetto è il comandamento nuovo, con cui Gesù ci dice che dobbiamo amare fino al dono della vita, come Egli ha fatto. A questo, come pastori, siamo votati. E’ questo che ci qualifica, e a questo tutti vorremmo restare fedeli: essere pastori buoni, essere veri padri. La paternità spirituale, più profonda e più estesa di quella fisica, è il servizio più nobile e il più crocifiggente. Chiede sacrificio, amore, spirito di servizio e senso di responsabilità. Chiede ascesi quotidiana. Se vogliamo coltivare e valorizzare i nostri fratelli laici dobbiamo essere pastori che “non spadroneggiano nel gregge” (1 Pt 5), né intendono “far da padroni sulla fede” dei credenti, ma dobbiamo impegnarci ad essere “collaboratori della loro gioia” (2 Cor 1, 24). Dobbiamo ascoltarli, incoraggiarli, dare fiducia, anche rischiando. Questo è il nostro grande compito di pastori. Ci è chiesta tanta pazienza e tanta fortezza: pazienza per non lasciarci amareggiare dagli insuccessi, né spaventare dalle difficoltà; fortezza per andare avanti, puntando sempre su grandi orizzonti e avanzando a piccoli passi. Fortezza per agire con quella dolcezza, che sa evitare sia la durezza scontrosa sia la debolezza arrendevole e rassegnata. Lo esige l’esercizio di una vera paternità. La paternità è fermezza ma senza durezza, è bontà ma senza debolezza. E’ autorità, ma sempre ragionevole, non scortese, non capricciosa, non dispotica. E’ sollecitudine trepida e vigilante per il bene della nostra gente. E’ capacità di ascoltarne i pareri, di coglierne i bisogni, di compatirne le debolezze, di perdonarne le offese. E’ gusto di spendersi per dare certezze, per suscitare speranza, per generare a vita nuova. E’ disponibilità a “consumarsi per le anime” – direbbe Paolo (cfr. 2 Cor 12, 15) – poiché la carità pastorale “urget nos”, “ci spinge”, ci incalza, non ci dà tregua. La paternità non seleziona, non esclude, non discrimina. Ama tutti e ciascuno. Ama ognuno secondo il suo bisogno, altrimenti ferisce, anziché far crescere. Ama ciascuno come se fosse l’unico, come fanno i genitori coi figli. Ama senza attendersi ritorni. Soffre se non c’è corrispondenza, ma non cessa, per questo, di amare. Come fa con noi il Signore, che non è mai stanco di amarci.

AI LAICI
E ora permettetemi di rivolgermi a voi, carissimi fratelli e sorelle, che Gesù ha voluto partecipi del suo sacerdozio profetico e regale. A voi, in questo particolare momento della storia, è chiesto di essere presenza significativa ed incisiva. La sfida antropologica, infatti, si gioca e sarà sempre più giocata tutta sul terreno riservato alle vostre competenze: cultura, scienza, politica, economia, comunicazione, arte. Un laico che crede e non si vergogna del Vangelo inevitabilmente contagerà altri, e questi altri ancora, a catena. E’ cosi che si diffonde il Vangelo. Nella condizione di diffuso secolarismo della nostra epoca, non vi sarà profezia se non tornerà a farsi profetica la vita del cristiano comune, di colui, cioè, che vive “nelle comuni condizioni del secolo”, di colui che mostra di fare tutto per la gloria di Dio, “sia mangiando, sia bevendo, sia facendo qualsiasi altra cosa” (cfr. 1 Cor 10, 31). In questo compito, voi fedeli laici avete “un posto di primo piano” (L. G. 36), soprattutto là dove “la Chiesa non può diventare sale della terra se non per mezzo vostro” (cfr. L. G. 33). Della vostra testimonianza non si può fare a meno. Perché la missione non è propaganda e la testimonianza non è fare colpo, ma fare mistero. E’ vivere una vita vera, piena, bella, talmente bella che essa non si potrebbe spiegare se Cristo non fosse morto e non fosse davvero risorto. Cristo morto e risorto, Cristo Unico Signore, Cristo il solo Salvatore: è questo il messaggio da recapitare con urgenza all’uomo d’oggi, giacché se Cristo non fosse risorto, il cristianesimo non sarebbe mai nato. I primi cristiani hanno annunciato questo messaggio in tutti i modi: lo hanno gridato, lo hanno cantato, lo hanno raccontato, ma soprattutto lo hanno testimoniato fino al sangue. Anche oggi vi è chiesto, carissimi fratelli e sorelle, di gridare il Vangelo con la vita, di comunicarlo, per “irradiazione” o per “contagio”, direbbe Paolo VI (cfr. E. N. 21). Si evangelizza infatti non solo con la proclamazione diretta del Vangelo, ma anche con una “condotta irreprensibile tra i pagani, perché (…) al vedere le vostre opere buone giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio” (1 Pt 2, 12). E “anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola”, possono “senza bisogno di parole, essere conquistati considerando la vostra condotta” (ivi 3,1-2). Questa condotta fa scattare le domande registrate nella lettera a Diogneto: “Che amore è quello che i cristiani si portano a vicenda? (…) Che Dio è quello in cui costoro confidano e che genere di culto gli tributano per disdegnare così il mondo e disprezzare la morte?”. E allora bisogna essere “pronti sempre a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15). Ma questo succede, di fatto, oggi, nelle nostre parrocchie o l’annuncio evangelico che vi risuona ha perso la freschezza di una notizia lieta e sorprendente, è diventato stanco e spento, e sa di scontato e di imparaticcio? Cosa che accade quando si riduce il cristianesimo da evento a dottrina a morale [a braccio: che poi diventa moralismo]. Il cristianesimo è storia e va innanzitutto raccontato, è vita e va anzitutto vissuto. Non dimentichiamo le parole di Sartre: “Bisogna aver scoperto l’amore prima della morale, altrimenti è lo strazio”. Vi auguro, fratelli e figli dilettissimi, di testimoniare nel mondo il fascino esercitato su di voi da questa storia infinita dell’infinito amore: l’amore di Dio fatto carne in Gesù, che ci ha amato fino alla morte e alla morte in croce.

A TUTTI
Mi sia concesso, ora, di concludere con un’esortazione che vale per tutti: sacerdoti, religiose e laici. E’ l’invito alla santità, che è chiamata universale ed è il segno di una vita riuscita. E’ la risposta più seria all’amore di Dio. E’ l’adesione piena ai suoi disegni. E’ il trionfo della sua grazia. Santità è luce che si riflette nel mondo grazie a innumerevoli lucerne vive, accese dalla grazia e disseminate dovunque. Che prendono sì luce dall’alto, ma sono saldamente piantate nella terra. Esse fugano l’oscurità del mondo, trasformandolo in un tripudio di luce: “Voi siete la luce del mondo (…) Risplenda la vostra luce davanti agli uomini” (Mt 5, 14.16). Farsi santi vuol dire “risplendere come astri nel mondo, tenendo alta la Parola di vita” (cfr. Fil 2, 15 sg.). Vuol dire “diventare conformi a Cristo” (cfr. Rm 8, 29). E’ Lui la Sorgente e il Modello di ogni santità. Vuol dire rendersi docili all’azione interiore dello Spirito, che è Santo e Santificante. Vuol dire contemplare Maria, che è specchio della santità (“speculum iustitiae”). Vuol dire imitare i Santi, che sono i riflessi viventi della divina perfezione. Vuol dire lasciarsi raggiungere e trasformare dai canali della santità, che sono i sacramenti. E’ questa la vera ricchezza della Chiesa: la santità. Diceva Gounod: “Una goccia di santità vale più di un oceano di genio”. Quanto più cresceremo nella capacità di renderci disponibili a Dio, cioè di tacere, di adorare, di pregare, di meditare, di arrenderci alle sue ispirazioni, di fare la sua volontà, di portare la sua croce, tanto più la sua pienezza ci invaderà, ci trasformerà, ci santificherà. E’ il sogno che custodisco nel cuore e che affido ai Santi di questa nostra Chiesa e alle lacrime della Madonna, Vergine fedele e Regina di tutti i Santi.

Giuseppe Costanzo

Settimana Santa 2008: quarta meditazione


Giovedì Santo

Carissimi, oggi inizia il triduo pasquale, durante il quale rivivremo la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. Oggi è la giornata della Messa crismale, della Messa "in coena Domini", dell'adorazione notturna del Santissimo Sacramento. E' la giornata dell'istituzione di ben due sacramenti: l'Eucarestia e l'ordine sacro del ministero sacerdotale.

"Gesù crocifisso è il sacrificio. Come tutti sappiamo, nell'Antico Testamento si usava offrire a Dio sacrifici mediante lo spargimento del sangue di animali. Essi avevano lo scopo sia di purificare gli uomini dai loro peccati sia di unirli alla volontà di Dio. Il sangue, nell'Antico Testamento, era segno di vita e la vita è sempre gradita a Dio: dunque immolandola - e il sangue ne era l'espressione esterna - si rendeva culto a Dio. Tuttavia, questi sacrifici non erano che un'ombra di quello che doveva essere il sacrificio nel Nuovo Testamento (cf. Eb 10, 1). Ecco infatti Gesù, l'Agnello di Dio, che versa sì il suo sangue una volta per sempre, donando con questo la sua vita, ma secondo quanto è scritto nella lettera agli Ebrei: "Entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo (...) per fare, o Dio, la tua volontà" (Eb 10, 5-7). Il sacrificio di quel corpo, dell'Uomo-Dio, è fare la volontà di Dio. Il sacrificio di Gesù, quindi, realizza e porta alla perfezione il senso più profondo e interiore dei sacrifici dell'Antico Testamento. Infatti, donando il suo sangue, pur divino, non avrebbe ancora fatto quanto era nella volontà del Padre. Egli, che era Dio, era la Vita. Doveva quindi morire, in certo modo, anche come tale: versare un sangue spirituale, divino, dare di sé Dio in sé". (Chiara Lubich, Il grido, Città nuova, Roma 2000, pp. 17-18)

mercoledì 19 marzo 2008

Settimana Santa 2008: terza meditazione


Stamattina Chiara ci offre una meditazione che, richiamando alla mente i martiri dei primi secoli della Chiesa, dedichiamo alla nostra grande martire concittadina, Lucia, preparandoci con Lei e con tutti i santi al solenne triduo pasquale, centro e culmine della storia umana:

"I SANTI E LA CROCE: Ignazio, vescovo di Antiochia, essendo ancora vicino al passaggio di Gesù sulla terra, allorché si avvia al martirio interpreta alla lettera le parole "prendi la tua croce" e scrive ai Romani: "Per me chiedete solo la forza interiore ed esteriore, perché non solo parli, ma anche voglia, perché non solo mi dica cristiano, ma lo sia realmente. (...) Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. (...) Ora incomincio ad essere un discepolo. Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia perché io raggiungo Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo. (...) Obbedite a quanto vi scrivo. Vivendo vi scrivo che bramo di morire. La mia passione umana è stata crocifissa, e non è in me un fuoco materiale. Un'acqua viva mi parla dentro e mi dice: qui al Padre". I santi, che sono i cristiani realizzati, hanno carpito il segreto, il valore della croce. Grignion de Montfort ne parla così: "In attesa del gran giorno del suo trionfo nel giudizio finale, la Sapienza vuole la croce come segno distintivo ed arma di tutti gli eletti. Infatti non accoglie nessun figlio se non l'ha come segno distintivo, né riceve alcun discepolo se non la porta sulla fronte senza arrossire, sul cuore senza disgusto e sulle spalle senza trascinarla o respingerla (...). Non accetta alcun soldato se non la impugna come un'arma per difendersi, attaccare, per sbaragliare e schiacciare tutti i suoi nemici. Grida loro: "abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!" (Gv 16, 33) (...). Io, il vostro capo, ho vinto i miei nemici con la croce, e voi pure lo farete per mezzo di questo segno!". (Chiara Lubich, Il grido, Città nuova, Roma 2000, pp. 16-17)

martedì 18 marzo 2008

Settimana Santa 2008: seconda meditazione


Da quel fortunato tempo in cui Cristo visse, morì e risuscitò, Egli è divenuto la Via, il modello per ognuno di noi (cf. Is 53, 7 Vulg.). Il cristiano, come Gesù, deve amare il Padre e perciò fare la sua volontà e sottomettersi a Lui. E la volontà di Dio sul cristiano è che arrivi egli pure alla gloria, alla felicità, per il cammino della croce, come Gesù. Ed è Lui stesso che ci insegna come seguirlo. Dice a tutti, infatti: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua" (Lc 9, 23). Seguire Gesù è anzitutto rinuncia. E' il rinneghi se stesso, che nel mondo oggi non si vuole comprendere, nell'illusione di un cristianesimo senza difficoltà. Ma la dottrina di Gesù è chiara e forte: altro che assenza di freni morali! Dice Paolo: "Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quell'avarizia insaziabile che è idolatria" (Col 3, 5), perché aspirare alle cose terrene è condursi "da nemici della croce di Cristo" (Fil 3, 18). Seguire Gesù vuol dire anche prendere la propria croce ogni giorno. Gesù allude al dolore di ogni giornata: vanno accettate tutte le piccole sofferenze quotidiane. Avendoci detto di prendere la nostra croce, ha dato senso e valore anche al nostro patire. Ricordo qui quanto fu grande la mia impressione a Gerusalemme, quando sul Calvario ci mostrarono il foro dove fu piantata la croce di Gesù: ginocchia a terra, annientata quasi in una adorante riconoscenza, mi è venuto un solo pensiero: se non ci fosse stata questa croce, tutti i nostri dolori, i dolori di tutti gli uomini non avrebbero avuto un nome. Ma: "Cristo non mostra soltanto la dignità del dolore - dice Paolo VI -. Egli lancia la vocazione al dolore... chiama il dolore (anche il nostro) a uscire dalla sua disperata inutilità e a diventare, se unito al suo, fonte positiva di bene". (Chiara Lubich, Il grido, Città nuova, Roma 2000, pp. 14-15)

lunedì 17 marzo 2008

Settimana Santa 2008: prima meditazione


"Gesù crocifisso! Che dire? Come dire bene di Lui? E' uomo come noi, e lo sappiamo. Ma è anche Dio. Ed è amore. E' venuto fra noi per un'opera che ci riguarda tutti, che tocca ognuno personalmente. Ci ha creato, ma abbiamo sciupato il dono che ci ha fatto, e continuamente lo deturpiamo; con la vita abbiamo ereditato le lacrime, il soffrire, e come conclusione di essa la morte, l'apparente annullamento di tanta esperienza. Ma ecco che Egli comprende lo stato degli uomini, conosce le miserevoli vicende della loro storia, ne ha pietà e scende sulla terra: si carica di tutto ciò che l'uomo doveva subire. "Dio non vuole che l'uomo si perda" (cf. Gv 6,39), e lo salva. Gesù, dunque, soffre e muore per l'uomo. Con l'uomo, con noi e come noi muore, e poi... risorge. "Era necessario" (cf. Mc 8,31), dice Gesù quando si avvicina l'ora del patire. Ma era necessario che cosa? E per chi? Aveva reso a sé necessario incarnarsi, soffrire e morire per noi, perché è amore! Ecco la straordinaria vocazione dell'Uomo-Dio, totalmente diversa, all'opposto di quella cui aspirano gli uomini in genere. E' venuto per "dare la sua vita in riscatto di molti" (Mt 20,28). Tutto era stato predisposto dal Padre. Gesù si sottomette. Ma, come dice Isaia del Servo del Signore, si è offerto perché lo ha voluto: vuole la volontà del Padre. La vuole perché ama anzitutto il Padre. E il Padre risponde a quell'amore con la sua potenza e compie un atto che mai aveva compiuto dopo la creazione, cioè la "nuova creazione": la risurrezione. Con essa anche il corpo di Gesù, "debole" e suscettibile di dolore e di morte, è trasfigurato, è glorificato (cf. 2 Cor 13,4), atto a salire alla destra del Padre. Così l'Uomo-Dio apre la porta della Trinità agli uomini redenti". (Chiara Lubich, Il grido, Città nuova, Roma 2000, pp. 13-14)